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Moro, l'umanesimo, la Costituzione e i giorni grami

  • Il Centrista
  • di Pino Pisicchio
  • 16 Marzo 2023
  • 3 minuti di lettura

Cos’hanno da dirsi le ricorrenze dei 45 anni dal rapimento e dalla uccisione di Aldo Moro e i 75 anni dalla nascita della Costituzione, non è l’estetica di una coincidenza di cifre arrotondate sul cinque. Ma il filo nobile di una coerenza che non finì mai.

Moro è stato uno dei padri della Costituzione: intervenne in modo decisivo nel dibattito nella storica assemblea lasciando un'impronta indelebile in molti articoli che oggi costruiscono la trama dell'impianto costituzionale, dalla norma principio dell’art. 3, che mette la persona umana al centro di tutto e davanti a tutto, alla scuola e alla famiglia, dai rapporti tra Stato e Chiesa, alla forma partito, dal voto palese nelle assemblee parlamentari - perché è giusto che ogni rappresentante del popolo si assuma le responsabilità di fronte agli elettori - all'ordinamento militare "democratico", dalla costituzione "economica", al diritto di sciopero.

Complessivamente oltre 300 interventi, tra lavori in sottocommissione e lavori in Assemblea. Non c’è una cesura tra il Moro costituente e il Moro statista ma anche il Moro prigioniero, quello dei 55 giorni sotto il dominio incontrollato delle Brigate Rosse. La condizione di drammatica cattività, l’angoscia impressa negli occhi che avevano visto come ultima sequenza prima della prigione l’assassinio degli uomini della scorta, l’umanissima paura della morte, percepita razionalmente come vicina e ingiusta, non tolsero un solo grammo di lucidità e di coerenza all’uomo, al pensatore, allo statista, nonostante il poco glorioso tentativo di disconoscimento dell'autenticità delle sue lettere compiuto in quei giorni bui.

Il grande tema posto da Moro è quello condiviso con i suoi colleghi costituenti che si rifacevano all'umanesimo integrale di Maritain e che si tradussero nella concezione dell'anteriorità della persona umana, di cui sono intrisi i primi articoli della nostra Costituzione: la primazia della stessa vita rispetto allo Stato.

Non si trattò, dunque, di un "salto" emozionale rispetto al sistema di pensiero cui Moro aveva aderito convintamente facendosene portatore e difensore, ma un atto di coerenza che peraltro non rompeva con l'ordine costituzionale, perché, come avrebbe scritto in una delle sue lettere dal carcere: "Si discute qui non in astratto diritto (benché esistano norme sullo stato di necessità), ma sul piano dell'opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l'unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione dei prigionieri da ambo le parti, attenuando l'attenzione di un contesto proprio dell'ambito politico".

Sui principi non si cede e Moro ai principi non cedette mai. Neanche in quei giorni terribili di un'agonia lucida e mutilata di ogni speranza. Anche allora continuò ad essere quel professorino di 29 anni capace di lasciare una traccia immensa nella Costituzione italiana, incardinando tutto l'impianto ordinamentale intorno alla persona, alla sua prorompente umanità, avanti a tutto.

Un richiamo di un'attualità assoluta, nei giorni in cui la vediamo scomparire nelle acque del mediterraneo, talvolta perdendoci in qualche labirinto leguleio, che piacerà forse a qualche a qualche azzeccagarbugli, ma che nega in radice quella umana concretezza di cui dev’essere impastata la politica. In coerenza coi principi costituzionali.

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